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Siamo quasi fuori pericolo, ma c’è chi vuole restarci spendendo di più

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di PIERCAMILLO FALASCA – La chiusura della procedura UE di infrazione per deficit eccessivo è per l’Italia una buona notizia, ma rischia di avere un effetto-boomerang di matrice tutta politica. La scarsa qualità del dibattito tra i partiti sulle prospettive di politica economica del Paese trasforma l’imminente decisione della Commissione Europea in un’aspettativa di maggiore spesa pubblica.

Come ha scritto Salvatore Merlo sul Foglio di oggi, il partito della spesa (con rappresentanti autorevoli nell’intera maggioranza parlamentare, da Fassina a Brunetta) ambisce a “governare a sbafo”, a deficit, nonostante i tentativi del premier di smorzare gli entusiasmi. Non è quella dei partiti sostenitore del governo Letta una approfondita riflessione sulla “ottusità” dell’austerità fiscale, di cui abbiamo letto qualche giorno fa su Chicago Blog grazie ad Ugo Arrigo, né il prendere parte alla contesa tra Paul Krugman e gli economisti Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, ben sintetizzata da Phastidio.net, quanto la tentazione di offrire all’opinione pubblica ricette semplici, immediate e sostanzialmente popolari per passà ‘a nuttata.

Solo che la nottata non passa con un qualche miliardino di spesa pubblica in più, con la manutenzione ordinaria del bilancio pubblico e nemmeno limitandosi ad abrogare l’aumento programmato dell’IVA dal 21 al 22 per cento a partire da luglio. Nella raccomandazione con cui Bruxelles dovrebbe riammettere l’Italia nell’alveo dei paesi virtuosi, ci dovrebbe essere spazio per le “riforme per il denominatore”, i provvedimenti capaci quanto meno nel medio periodo di riattivare l’economia e stimolare la crescita del Pil, vale a dire il denominatore del rapporto debito/Pil, senza la quale nulla viete di temere che tra un anno o due l’Italia torni allo status di sorvegliato speciale. Argomenti che nel dibattito pubblico italico sono una specie di fiume carsico, compaiono all’improvviso per sparire altrettanto rapidamente.

Dalla campagna elettorale per le politiche in poi, ma potremme includere nel conto anche gli ultimi nove mesi del governo Monti, non c’è stato praticamente spazio di discussione per l’agenda delle liberalizzazioni, del sistema del credito, delle riforme strutturali dei mercati dei servizi e del welfare. Soprattutto nell’ambito delle “riforme a costo zero” in termini fiscali, che sono però spesso molto gravose in termini di interessi e di consenso, l’esecutivo di Enrico Letta ha ora davanti a sé un bivio: vivacchiare o provare a saggiare fin da subito la fedeltà al governo di Pd e PdL, con proposte d’intervento molto esplicite su alcuni dei principali dossier aperte (ormai da anni).

Se Letta vuol far sentire la sua voce in Europa, sfruttando la chiusura della procedura di infrazione per far riconquistare autorevolezza all’Italia nel consesso comunitario in vista del Consiglio Europeo di fine giugno, non può apparire come il capo di un governo che ha fretta di spendere o, peggio, che non ha altra via d’uscita dal pantano della crisi se non l’allentamento dei cordoni della borsa. Ricordate cosa sarebbe dovuta essere – dopo la “mazzata” del decreto salva-Italia di fine novembre 2011 – la “fase due” del governo tecnico? Ecco, in realtà la si sta ancora aspettando, dopo più di un anno.

Proposta: perché il governo italiano non si fa portavoce in sede europea della necessità di un’accelerazione del processo di istituzione di un’area di libero scambio atlantica USA-UE? Siamo o non siamo il Paese che vuol puntare sul suo export di qualità verso i grandi mercati? La “sfida” alla Germania perché assuma un ruolo attivo, non di semplice guardiano dell’ortodossia di bilancio, può assumere anche vie alternative alla solite richieste piagnone.


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